Accolto il nostro ricorso in appello, proposto per un medico ortopedico del pronto soccorso contro l’Azienza Sanitaria Locale Napoli 3 SUD. La Corte di Appello di Napoli, sezione lavoro, ha accolto le domande dell’appellante ed ha condannato l’ASL al risarcimento del danno, pari ad oltre 100 mila euro, conseguente alla violazione del diritto al periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive e della normativa sull’orario notturno. La consulenza del lavoro per la quantificazione del danno è stata svolta da SCF – Servizi di Consulenza e Formazione.

La Corte evidenzia quanto le disposizioni contenute nella direttiva sull’orario di lavoro 2003/88/CE – che consolida e sostituisce le precedenti direttive 93/104/CE e 2000/34/CE – siano volutamente focalizzate su alcuni importanti profili che riguardano la salute fisica in senso ampio, ivi ricomprendendovi il benessere psicologico, passando attraverso la regolamentazione dei riposi, delle pause, delle ferie e dei turni notturni; dunque, riscontra la violazione della suddetta normativa eurounitaria nei termini che seguono.

  1. Per quel che riguarda la fruizione del riposo minimo di 11 ore consecutive ogni 24, la Corte d’appello ha innanzitutto censurato la sentenza di prime cure nella parte in cui osservava che “l’orario risultante dalle timbrature non è necessariamente coincidente con l’orario di lavoro effettivo, potendo ricomprendere anche tempi dedicati ad attività non funzionali all’attività lavorativa”, per cui “sebbene formalmente rientrante nell’orario di lavoro, non possa ritenersi in esso inclusa”.

Nello specifico della confutazione di detta osservazione, si riporta un consolidato orientamento della Corte di giustizia, che – con sentenze del 9 settembre 2003, C-151/02, Jaeger, e dell’11 gennaio 2007, n. 437 C-437/05 – si è espressa proprio nell’ambito della qualificazione del servizio di guardia medico-ospedaliero ed ha chiarito che, al fine di stabilire se un certo periodo di servizio rientri nella nozione di orario di lavoro, occorre che sussista l’obbligo di “essere fisicamente presenti sul luogo indicato dal datore di lavoro e a tenersi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente l’opera in caso di necessità”. Si chiarisce, altresì, che “la possibilità, per i medici che svolgono un servizio di guardia secondo il regime della presenza fisica in ospedale, di riposarsi, e anche di dormire, durante i periodi in cui non si richiede la loro opera è irrilevante al riguardo. Siffatti periodi di inattività professionale ineriscono infatti al servizio di guardia effettuato dai medici secondo il regime della presenza fisica in ospedale, dato che, a differenza del normale orario lavorativo, la necessità di interventi urgenti dipende dalle circostanze e non può essere preventivamente programmata”. Ne deriva che il lavoratore, essendo comunque costretto a “restare lontano dal suo ambiente familiare e sociale” e risultando limitata la sua libertà di gestire il proprio tempo, non può ritenersi in quel frangente a riposo; e ciò anche quando materialmente non eroghi una prestazione o, addirittura, dorma.

E allora, escludere dalla nozione di “orario di lavoro” le ore di guardia svolte secondo il regime della presenza fisica sul luogo di lavoro equivarrebbe a mettere in discussione l’obiettivo della direttiva 2003/88, che è quello di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori, facendo in modo che essi possano beneficiare di periodi minimi di riposo e di adeguati periodi di pausa (v. CGUE sentenza del 21 febbraio 2018, C-518/15, sentenza del 3 ottobre 2000, Simap, C-303/98, EU:C:2000:528, punto 49).

Infatti, ai sensi della direttiva, il “periodo di riposo” non sussiste semplicemente in forza dell’assenza della prestazione lavorativa, ma quando lo stesso sia contestualmente anche conforme al requisito dell’adeguatezza, così come prescritto dall’articolo 2, n. 9, della medesima direttiva 88 del 2003 (che qualifica come “riposo adeguato” proprio “il fatto che i lavoratori dispongano di periodi di riposo regolari, la cui durata è espressa in unità di tempo, e sufficientemente lunghi e continui per evitare che essi, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano l’organizzazione del lavoro, causino lesioni a sé stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute, a breve o a lungo termine”).

  1. La sentenza di primo grado è stata, altresì, censurata con riferimento alla interpretazione che essa fornisce della disciplina eurounitaria e nazionale in ordine alla derogabilità della fruizione dei riposi giornalieri.

In particolare, il comma 10 dell’art. 28 del CCNL del comparto sanità (relativo al triennio 2016-2018, applicabile al rapporto contrattuale de quo) ha previsto che, a fronte di una interruzione del riposo per chiamata in reperibilità, il lavoratore debba successivamente fruire delle sole ore mancanti e non ricominciare da capo l’intero periodo; così, ove non sia possibile recuperarle immediatamente dopo il servizio, “quale misura di adeguata protezione, le ore di mancato riposo saranno fruite, in un’unica soluzione, nei successivi sette giorni, fino al completamento delle undici ore di riposo”. Tale disposizione è evidentemente derogatoria della disciplina generale in materia di riposo giornaliero del lavoratore, come prevista dalla direttiva 2003/88, ed incontra dei limiti parimenti stabiliti a livello unionale. Di detti limiti, l’ASL, prima, e il giudice di primo grado, dopo, non hanno tenuto correttamente conto.

Risulta, infatti, dalla giurisprudenza della Corte (CGUE C-429/09 del 14 ottobre 2010) che, alla luce del tenore della direttiva 2003/88, dei suoi obiettivi e della sua economia, “le varie prescrizioni ivi enunciate in materia di periodi minimi di riposo, come quella di cui all’art. 3, costituiscono disposizioni della normativa sociale dell’Unione che rivestono importanza particolare e di cui ogni lavoratore deve poter beneficiare quale prescrizione minima necessaria per garantire la tutela della sua sicurezza e della sua salute” (v., in particolare, sentenze BECTU, cit., punti 43 e 47, nonché 7 settembre 2006, causa C-484/04, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. 1-7471, punto 38).

Dunque, se l’obiettivo principale della direttiva 2003/88 è quello di proteggere in modo efficace la sicurezza e la salute dei lavoratori, ognuno di essi “deve, in particolare, beneficiare di periodi di riposo adeguati che, oltre ad essere effettivi, consentendo alle persone interessate di recuperare la fatica dovuta al lavoro, devono anche rivestire un carattere preventivo tale da ridurre il più possibile il rischio di alterazione della sicurezza e della salute dei lavoratori che l’accumulo di periodi di lavoro senza il necessario riposo può rappresentare” (sentenze 9 settembre 2003, causa C-151/02, Jaeger, Racc. pag: 1-8389, punto 92, e Commissione/Regno Unito, cit., punto 41).

È precisamente questa la ratio alla quale eventuali normative o provvedimenti derogatori, ai sensi dell’art.17 della direttiva, devono essere attenersi.

La Corte di giustizia (CGUE C-429/09 del 14 ottobre 2010) ha ulteriormente precisato che, in quanto eccezioni al regime dell’Unione in materia di organizzazione dell’orario di lavoro (come previsto dalla richiamata direttiva 2003/88), tali deroghe devono avere carattere di eccezionalità e sono di stretta interpretazione: “devono essere interpretate in modo che la loro portata sia limitata a quanto strettamente necessario alla tutela degli interessi che esse permettono di proteggere” (v. sentenza Jaeger, cit., punto 89) e, quindi, sono state previste e legittimate soltanto allo scopo di garantire il buon funzionamento dei servizi indispensabili alla tutela della sicurezza, della salute e dell’ordine pubblico in caso di circostanze di gravità ed eccezionalità.

Nel campo dei sanitari, le deroghe possibili sarebbero quelle di cui all’art. 17, paragrafo 3, lett. c), sub 1); le stesse sono, però, espressamente subordinate alla condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo, oppure – in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive – che venga loro concessa una protezione appropriata.

Tali “equivalenti periodi di riposo compensativo” intanto sono conformi alla direttiva 2003/88 in quanto siano “effettivi ed adeguati”; essi devono, cioè, “caratterizzarsi per il fatto che il lavoratore, durante tali periodi, non è soggetto, nei confronti del suo datore di lavoro, ad alcun obbligo che gli possa impedire di dedicarsi, liberamente e senza interruzioni, ai suoi propri interessi al fine di neutralizzare gli effetti del lavoro sulla sicurezza e la salute dell’interessato”. I riposi compensativi devono, poi, necessariamente “essere immediatamente successivi all’orario di lavoro che sono intesi a compensare”; non sarebbe, cioè, legittimo differire il riposo perché in tal modo lo stesso verrebbe meno al suo fine “di evitare uno stato di fatica o di sovraccarico del lavoratore dovuti all’accumulo di periodi di lavoro consecutivi” (v. sentenza Jaeger, cit., punto 94).

Con specifico riferimento ai sanitari, si evidenzia che “l’aumento dell’orario di lavoro giornaliero che, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2003/88, gli Stati membri possono effettuare, riducendo la durata del riposo concesso al lavoratore durante una giornata lavorativa prestata deve in linea di principio essere compensato mediante la concessione di periodi equivalenti di riposo compensativo, costituiti da un numero di ore consecutive corrispondente alla riduzione operata e di cui il lavoratore deve beneficiare prima di iniziare il periodo lavorativo successivo. In linea generale, il fatto di concedere tali periodi di riposo solo in “altri orari”, non avendo più un nesso diretto con il periodo di lavoro prolungato dovuto all’attività straordinaria, non tiene adeguatamente conto della necessità di rispettare i generali di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori che costituiscono il fondamento del sistema di organizzazione dell’orario di lavoro dell’Unione” (sentenza C—180/14 del 23 dicembre 2015); e ciò per consentire ai lavoratori “di rilassarsi e smaltire la fatica connessa all’esercizio delle loro funzioni”.

Dunque, la Corte di Appello di Napoli, a fronte della mancata indicazione delle condizioni di eccezionalità legittimanti la deroga alla disciplina comunitaria e nazionale sul punto (CC.NN.LL 2016-2019 e 2019-2021, per i quali, ove ricorrano “ragioni eccezionali” che non consentano di godere continuativamente del riposo compensativo, lo stesso sarà fruito “nei successivi sette giorni al completamento delle undici ore di riposo”), ha ritenuto integrata la violazione della medesima disciplina (comunitaria e nazionale) sui riposi giornalieri, con la conseguente configurabilità di un c.d. danno da stress o da “usura psico-fisica”.

La soluzione si spiega in considerazione della circostanza che, nella fattispecie del lavoratore leso dall’inadempimento contrattuale datoriale, si rinviene una diretta copertura costituzionale nell’art 36 Cost., sicché la lesione dell’interesse espone il datore al risarcimento del danno non patrimoniale da “usura-psico-fisica”, derivante dalla mancata fruizione del riposo, e dell’ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una “infermità” del lavoratore determinata dall’attività lavorativa usurante svolta senza soluzione di continuità (cfr. Cass. Sez. L. nn. 16711 del 5/8/2020, 24563 del 1/12/2016, 17966 del 13/9/2016, 14710 del 14/7/2015, 21225 del 20/10/2015, 2886 del 10/02/2014, 2455 del 04/03/2000).

Danni, questi ultimi, quantificati dal giudice di secondo grado in euro 32.449,42, oltre rivalutazione ed interessi da dovuto al saldo.

  1. Riflessioni analoghe sono state riservate, dalla Corte di Appello di Napoli, all’accoglimento dell’ultimo motivo di censura, relativo allo svolgimento del lavoro notturno per più di otto ore per periodi di 24.

Si rinviene, nello specifico, la violazione della normativa nazionale sul lavoro notturno, come, del resto, uniformata alla direttiva comunitaria 2003/88.

L’art. 13 del d.lgs. 66 del 2003 prevede chiaramente che “l’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le otto ore in media nelle ventiquattro ore”; la norma fa “salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite”. Tale potere, però, nel caso de quo non è stato esercitato dalla fonte contrattuale nazionale, né l’ASL ha allegato diverse fonti locali.

È stata, così, giudicata arbitraria e svincolata da un dato positivo l’interpretazione (dell’appellata) che pretende di calcolare il limite addirittura su base settimanale.

Un’interpretazione riduttiva della tutela prevista dalla norma, infatti, è da escludere come chiarito dalla Corte di Giustizia UE con sentenza della Sez. 6 del 04 maggio 2023 (in cause riunite da C-529/21 a C-536/21 e da C-732/21 a C-738/21), secondo la quale “l’ambito di applicazione della direttiva deve essere inteso in senso ampio, cosicché le deroghe a tale ambito di applicazione, devono essere interpretate restrittivamente. Infatti, tali deroghe sono state adottate soltanto allo scopo di garantire il buon funzionamento dei servizi indispensabili per la tutela della sicurezza, della salute e dell’ordine pubblico in caso di circostanze di gravità e di ampiezza eccezionali” (sentenza del 3 maggio 2012, Neidel, C-337/10, EU:C:2012:263, punto 21 e giurisprudenza ivi citata).

La Corte di Appello di Napoli, così, condanna l’Azienza Sanitaria Locale Napoli 3 SUD al pagamento di euro 68.372,77 a titolo di risarcimento del danno conseguente alla violazione della normativa sull’orario notturno, oltre rivalutazione ed interessi da dovuto al saldo.

La sussistenza del danno deriva – come emerge dalla giurisprudenza europea citata – dalla mancata fruizione del riposo che, di per sé, integra un bene giuridico tutelato dall’ordinamento; ne consegue il diritto al risarcimento del danno nella quantificazione sopra indicata.

Leave a comment

Scroll to top