Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4087/2023, ha rilevato che in caso di illegittima cessazione dell’incarico di revisore da parte del Comune, quest’ultimo non solo deve ripristinare immediatamente l’incarico, ma risponde anche del danno patito dal professionista dall’illegittima cessazione fino alla sentenza che la accerta.
Per la stima di tale danno, ritiene il Collegio, bisogna considerare in quota percentuale la remunerazione non corrisposta per effetto del comportamento illegittimo, detraendo da essa non tutti i redditi percepiti per altre attività, ma unicamente quelli derivanti da incarichi astrattamente incompatibili con la funzione di revisore dell’ente.
Precisa il Consiglio, infatti, che secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza la riduzione del danno di una quota corrispondente all’aliunde perceptum è subordinata alla condizione dell’esercizio, nel c.d. periodo intermedio (cioè in quello intercorrente tra la cessazione o sospensione del rapporto di lavoro o dell’incarico professionale e la sentenza di annullamento), di attività lavorativa e/o professionale incompatibile con quella cessata o sospesa a seguito dell’atto annullato.
Con la detta pronuncia viene, dunque, rivista la pronuncia del TAR di Roma che aveva viceversa eccessivamente limitato il risarcimento, imponendo, ai fini della sua quantificazione, la decurtazione di ogni reddito di lavoro comunque prodotto nel periodo intermedio.