Lo scorso 10 luglio, la Consulta ha depositato la sentenza n. 170/2019, con la quale ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate (da ben tre diversi TAR) in merito alla soppressione del Corpo Forestale dello Stato ed all’assorbimento della massima parte delle sue funzioni e del suo personale nell’Arma dei Carabinieri.
In breve, secondo i Giudici è, innanzitutto, legittimo che il Parlamento possa delegare al Governo la scelta se far transitare le funzioni ed i membri di una polizia, dall’ordinamento civile a quello militare. La delega contenuta nella Legge Madia non è considerata, inoltre, né generica, né lesiva delle posizioni del personale, né limitativa delle prerogative delle Regioni, che nel processo normativo sono state solo marginalmente coinvolte. Si ritiene adeguatamente tutelato il bene Ambiente, a fronte dei risparmi per l’erario, giacché, secondo i Giudici, tale risparmio si accompagna ad una sinergia di risorse che realizza un livello superiore di efficienza, né la dispersione di funzioni, prima unitariamente svolte dal CFS, tra più amministrazioni, realizza una dannosa disgregazione di professionalità. La scelta dell’accorpamento all’Arma viene poi valorizzata in base alla analoga distribuzione sul territorio degli uffici dell’Arma e di quelli del CFS ed in base al percorso di specializzazione che l’Arma ha avuto in campo agroalimentare ed ambientale.
Il cuore del problema innescato dall’accorpamento del CFS all’Arma dei Carabinieri, ovvero la forzata militarizzazione del personale che ha subito la riforma, viene affrontato in ultimo. Al riguardo, la Consulta evidenzia che la riforma recata dal d.lgs. n. 177/2016 è il frutto di un bilanciamento non irragionevole tra l’esigenza di migliorare i servizi di tutela ambientale e forestale, ottimizzandone i costi, attraverso il trasferimento della maggioranza delle funzioni all’Arma dei Carabinieri, e quella di salvaguardia dei diritti del personale forestale. Secondo la Corte Costituzionale, la militarizzazione degli ex membri del CFS non è il frutto di un meccanismo coercitivo e l’esigenza del Governo di realizzare una sintesi organizzativa tra due corpi di polizia, anche se afferenti ad ordinamenti diversi, quello civile e quello militare, deve prevalere su ogni altro diritto preteso in giudizio.
Sulla tutela del diritto fondamentale di ogni dipendente pubblico appartenente ad una forza di polizia a che possa autonomamente determinarsi, nei rapporti con lo Stato, scegliendo se essere civile mantenendo le proprie funzioni, ovvero assumere l’onere del militare, nella sentenza è omessa qualsiasi ponderata considerazione.
Sconcerta che, per sorreggere la decisione di legittimità della riforma, si evidenzi che il personale militarizzato aveva dotazione d’arma: tale affermazione, da un lato, è solo parzialmente vera, in quanto è stato coinvolto nel transito anche il personale del ruolo tecnico, privo nel CFS di dotazione d’arma e finanche di divisa, e, dall’altro, non rappresenta affatto adeguatamente gli effetti che conseguono all’acquisizione dello status di militare.
Sconcerta che, per sorreggere la decisione di legittimità della riforma, si sostenga che la specificità dell’ordinamento militare rispetto a quello civile è oggi mitigata dal riconoscimento dei diritti sindacali (riconosciuti per vero in modo molto più limitato che per i civili), senza considerare che il mondo militare è caratterizzato dall’applicazione di leggi del tutto eccezionali, come la legge penale militare che comporta la previsione di determinati reati non esistenti per i civili, l’aggravamento di pena per altri reati, la rilevanza penale della violazione di doveri disciplinari e di servizio, la soggezione ad una giurisdizione e ad una procedura penale diversa da quella ordinaria, la compressione delle libertà di circolazione, di riunione, di manifestazione del pensiero ed in parte di esercizio dell’attività politica.
Tali limitazioni sono state tuttavia del tutto omesse nelle considerazioni della Consulta ed i limiti alle prerogative costituzionali che hanno i militari, del tutto genericamente ricordate in sentenza, sono state considerate contemperate da una mobilità che è stata rappresentata come una fisiologica chiusura di sistema.
E’ tuttavia noto come la mobilità alternativa al transito nell’Arma sia stata concessa per meno del 10% del personale trasferito, esclusivamente al di fuori del comparto sicurezza ed avrebbe determinato, per coloro che vi accedevano, la sottrazione delle qualifiche di polizia giudiziaria e pubblica sicurezza, il transito fuori Regione (nella maggioranza dei casi), nonché l’applicazione del contratto di lavoro privatizzato, che sconta una grave perdita in termini di progressione di carriera, certo non compensata dalla previsione di assegni perequativi.
La considerazione di una mancata coercizione riguardo l’assunzione dello status di militare è dunque senz’altro non condivisibile.
La riforma ha peraltro inflitto gravi pregiudizi anche a quanti sono stati obbligati a fuoriuscire dal comparto sicurezza, transitando nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nel Mi.pa.a.f.t. o comunque in altre amministrazioni civili.
Orbene, nonostante tale pronuncia, restiamo fortemente convinti che ai Forestali sia stata imposta dalla legge italiana una scelta che limita in modo insopportabile i propri diritti e libertà fondamentali. La sentenza segna, da oggi, il passo verso una concezione di Paese in cui i diritti dei singoli sono talmente asserviti alla ragion di Stato che l’essere dipendenti di una forza di polizia, finanche se tecnici e senza dotazione d’arma, può comportare dall’oggi al domani l’obbligo di assumere lo status di militare.
Il ricatto occupazionale patito e la forzata militarizzazione o fuoriuscita dal comparto sicurezza subiti dagli ex membri del CFS riteniamo non rispettino i diritti fondamentali della persona, che dovrebbero essere preservati nell’ambito di qualsiasi riforma dello Stato.
Dignità e lavoro sono i due elementi intangibili che sostanziano i principi fondamentali della libertà e dell’eguaglianza e che, nel caso della riforma che ha soppresso il CFS, risultano essere stati, del tutto ingiustamente, posti in totale secondo piano.
Da queste considerazioni brevi, ma frutto tuttavia di profonda e consapevole meditazione, nasce la convinzione di poter efficacemente percorrere una ulteriore e rinnovata fase di rivendicazioni davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, quale Giudice sovranazionale, possa giudicare se la riforma del CFS sia stata, come crediamo, realizzata attraverso una grave violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, la quale esige che ogni scelta del potere pubblico debba essere giustificata in un’ottica di massimizzazione della tutela dei diritti della Persona.
In questo modo, proseguirà il percorso già favorevolmente intrapreso davanti agli organismi del Consiglio d’Europa, avendo il Comitato europeo dei diritti sociali già dichiarato ricevibile il ricorso (https://tinyurl.com/yy4nma9k) presentato nel febbraio del 2017.
Ogni Forestale che abbia già introdotto un ricorso avverso i provvedimenti di trasferimento conseguiti al d.lgs. 177/2016 dinanzi al competente TAR, sebbene il giudizio non sia stato ancora definito con sentenza, potrà dunque proporre, con la mia assistenza, un Ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo con l’obiettivo di ottenere un risarcimento economico per il pregiudizio subito, sia per la militarizzazione forzata, che per la fuoriuscita dal comparto sicurezza, con una sentenza che dichiari la violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea compiuta dallo Stato italiano nelle vicenda della soppressione del CFS.

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